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Referendum sulle "trivelle": le ragioni del sì e del no

Il 17 aprile, il referendum ci chiederà di decidere sulla chiusura o meno, alla fine del periodo di concessione, delle piattaforme di estrazione di petrolio e gas entro le 12 miglia. Mettiamo a confronto le ragioni dei due schieramenti.

Impianto a gas nel mar Adriatico, a largo di Rovigo
Immagine di pubblico dominio: Floydrosebridge
Il referendum del 17 aprile sulle "trivelle" ha le sue lontane origini in una catastrofe, come spesso capita: l'esplosione della piattaforma petrolifera "Deepwater Horizon" nel Golfo del Messico. Nel 2010 ha provocato una gigantesca marea nera, e le conseguenze nell'area sono gravi ancora oggi.

A seguito di quel disastro, il governo Berlusconi ha vietato ogni nuova attività estrattiva di idrocarburi nelle 12 miglia davanti le coste italiane. Nel 2012, però, il governo Monti le ha permesse di nuovo e, nel 2014, il governo Renzi ha dichiarato l'estrazione di petrolio e gas in mare "attività strategica", sottraendola al consenso delle Regioni.

Per questo motivo, e per la prima volta nella storia, nove regione italiane hanno presentato insieme la richiesta di sei referendum per smantellare quelle norme. In risposta alla sollevazione, nel 2015 il governo ha riportato la legislazione sulle estrazioni in mare a quella del 2010, con una sola differenza: le attività estrattive in corso entro le 12 miglia ora hanno concessioni senza limiti di tempo. Cioè saranno valide finché ci sarà qualcosa da estrarre.

Partiamo dal quadro generale. In Italia, le piattaforme attive, tra Adriatico, Ionio e Canale di Sicilia, sono 87. Quelle che si trovano entro le 12 miglia marine, e quindi oggetto del referendum, sono 79. In Italia ogni giacimento viene dato in concessione per 30 anni, con eventuale proroga. Il referendum chiede che, alla scadenza delle concessioni, gli impianti entro le 12 miglia vengano fermati.

Sì, no o astensione?
Da un lato, questo vuol dire che i giacimenti andrebbero abbandonati, con la perdita di migliaia di posti di lavoro. Inoltre, chi ha investito in base a leggi esistenti e piani di produzione sarebbe danneggiato. Probabilmente, questo porterebbe a cause milionarie, che pagheremmo noi cittadini.

Dall'altro lato, se vincesse il sì non ci sarebbe una chiusura immediata e di massa degli impianti. La loro fine sarebbe scaglionata tra il 2017 e il 2034, man mano che scadono le concessioni e le eventuali proroghe già ottenute.

Un tempo quasi sempre sufficiente ad esaurire giacimenti che sono già in declino produttivo. Ma non è così per tutti. Fra i giacimenti di possibile prossima chiusura, ce ne sono alcuni che sono ancora in buona salute, come quello dell'Eni davanti a Crotone, la cui concessione scade nel 2018.

Una cosa importante da capire è che, nonostante si faccia un gran parlare di "trivelle", in gioco non ci sono perforazioni, ma impianti che gestiscono centinaia di pozzi trivellati molti anni fa. Inoltre, anche se si insiste molto sul pericolo delle maree nere, quasi tutte le piattaforme non estraggono petrolio, ma metano, con rischi di inquinamento molto ridotti.

Chiaramente, si tratta di impianti industriali dove un incidente sarebbe comunque grave per l'ambiente. Tra l'altro, c'è un'inchiesta di Greenpeace sui dati, mai resi pubblici, delle analisi condotte fra 2012 e 2014 dall'Ispra: in sedimenti e cozze intorno a 34 piattaforme a gas nell'Adriatico, nel 79 % dei casi sono stati rilevati valori superiori ai livelli accettabili per metalli pesanti e idrocarburi aromatici.

Ma perché dovremmo lasciare nel sottosuolo risose utili, su cui abbiamo già impianti? Una possibile risposta è quella di Paul Ekins, un economista del London University College, che nel 2014 ha scritto su "Nature": per non far crescere le temperature globali oltre i 2 °C rispetto al 1850, bisognerà lasciare nei giacimenti il 53 % del gas e il 35 % del petrolio.

Certo, questo non vuol dire che, chiudendo le estrazioni nei nostri mari, l'Italia di colpo non avrebbe più bisogno di quel gas e di quel petrolio. Semplicemente dovremo importarli, facendoli estrarre da qualche altra parte e pagandoli cari.

Chi è per il sì, invece, sostiene che questa sia l'occasione giusta per spingere sulle rinnovabili e superare la dipendenza da petrolio e metano. Che è doveroso e necessario, se ci sta a cuore il futuro del nostro Paese. Tuttavia, bisogna tener conto del fatto che il passaggio ad un sistema energetico basato sulle rinnovabili sarà, per forza di cose, lento e graduale, e non ci possiamo illudere del contrario.

Questi sono, in breve, i punti essenziali della questione. Ora sta a voi decidere se votare sì o no, o se astenervi dal voto. Personalmente, credo che non andrò a votare. E non perché non mi stia a cuore l'argomento. Ma perché in queste settimane ho letto e ascoltato tanta disinformazione, intorno a questo referendum. E ho paura che molte persone vadano a votare senza aver capito davvero di cosa stiamo parlando.

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