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Quando gli tsunami colpiscono il Mediterraneo

Testimonianze storiche e ricerca scientifica dimostrano che il nostro mare è a rischio tsunami. Quanto siamo preparati a fronteggiare il pericolo?

l'Italia ha 8.300 km di coste, 639 comuni costieri, 208 porti turistici e 31 porti commerciali. Il 30 % della popolazione vive sulle coste.
Immagine di pubblico dominio: Pixabay
Quando si parla di tsunami, il pensiero va ai tragici episodi della storia recente: lo tsunami del Sudest asiatico del 2004, o quello che ha colpito il Giappone nel 2011, causando il disastro di Fukushima. Ma il Mare Nostrum non è al riparo dal rischio tsunami, come la storia insegna. E che cosa accadrebbe se un maremoto si abbattesse oggi sulle nostre coste?

Nel Mediterraneo, le zone da monitorare con particolare attenzione sono: la costa algerina, il Mar Ligure, la costa della Sicilia tirrenica, lo stretto di Messina, lo Ionio (soprattutto verso Grecia e Albania), il Mare Adriatico su entrambi i lati, le isole greche e Cipro. Mentre per gli tsunami dovuti ad attività vulcanica: le isole Eolie e quelle del canale di Sicilia, le isole greche e i vulcani sommersi Marsili e Palinuro (Tirreno meridionale).

La sua posizione geografica rende l'Italia una sorta di spartiacque, e questo la espone a tsunami provenienti sia da est sia da ovest. Il "Catalogo dei maremoti italiani", compilato dall'INGV, ne riporta 72, a partire da quello causato dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., che sommerse Pompei, Oplontis, Ercolano e Stabia.

L'evento che ha colpito di più l'immaginario collettivo è il terremoto-maremoto dello stretto di Messina del 1908. Si possono ricordare anche il maremoto che colpì la Sicilia orientale nel 1693 e i nove tsunami che si abbatterono sulla Calabria tirrenica tra il 1783 e il 1784, tra i quali il più tragico fu quello del 6 febbraio 1783, che provocò oltre 1.500 vittime.

La Liguria è la regione italiana dove è stato registrato il maggior numero di maremoti, anche se quasi tutti di lieve entità. Nell'Adriatico l'evento più rilevante è quello del Gargano del 1627, che prosciugò il lago di Lesina.

In tema di rischio, bisogna fare attenzione ad evitare di cadere in facili errori di valutazione. Un chiaro esempio può essere il Salento, zona considerata a bassa pericolosità sismica, il che potrebbe farla percepire poco esposta al pericolo tsunami. Basta però allargare lo sguardo per constatare come sia circondata da zone caratterizzate da sismicità elevata, che la espongono al rapidissimo arrivo di tsunami che partono da aree limitrofe.

In effetti, le coste salentine sono disseminate di testimonianze di maremoti verificatesi nel corso della storia. Tra le più macroscopiche, si possono citare i grossi blocchi rocciosi che si trovano in località Torre Sant'Emiliano, a sud di Otranto: il più grande pesa addirittura 70 tonnellate, e sono la testimonianza del maremoto del 1743.

Per valutare l'esposizione della penisola italiana basta dare un'occhiata ai numeri: l'Italia ha 8.300 km di coste, 639 comuni costieri, 208 porti turistici e 31 porti commerciali. Il 30 % della popolazione vive sulle coste. A dispetto degli avvertimenti dei geologi, i centri abitati pericolosamente a ridosso del mare sono ancora moltissimi, a testimonianza della scarsa penetrazione dell'educazione ambientale nel nostro paese.

Inoltre, c'è un documentato aumento della popolazione costiera nella stagione estiva. Quindi, un eventuale tsunami si andrebbe a riversare su zone densamente abitate o comunque interessate da un'intensa attività umana, con esiti potenzialmente distruttivi. Che cosa fare, dunque?

Un primo, importante aiuto viene dalla Rete Mareografica Nazionale gestita dall'ISPRA, che si estende lungo tutte le coste italiane. L'unico problema è che i mareografi sono collocati soprattutto nelle aree portuali, e quindi le misurazioni potrebbero arrivare quando ormai è troppo tardi.

Un altro aiuto potrebbe giungere dalla realizzazione di un sistema di allerta tsunami per l'area euro-mediterranea. L'INGV è Candidate Tsunami Service Provider per l'intero bacino del Mediterraneo, e per questo ha costituito il Centro allerta tsunami, che dal 1° ottobre 2014 agisce in modalità pre-operativa nei confronti della Protezione civile e di tutti i paesi del Mediterraneo che hanno richiesto il servizio di allerta.

L'UNESCO ha anche avviato progetti per installare nel Mediterraneo sensori di profondità in mare aperto. Sono le famose boe DART (Deep-ocean Assessment and Reporting of Tsunamis), presenti nel Pacifico, il cui costo proibitivo (diverse centinaia di migliaia di euro l'una) al momento costituisce un notevole ostacolo.

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